Perché non basta un trapasso ultraterreno per ritenere che quel numero 20 che in un’estate spagnola ha fatto innamorare milioni di italiani possa in qualche modo sparire dalla vista e dalla memoria di ogni singolo italiano. Paolo c’è perché è nel cuore di tutti, che un qualcosa che trascende qualsiasi regola o legge della fisica. Lo sente vicino chi lo ha apprezzato come calciatore e come uomo, chi oggi ne porta avanti il ricordo lasciando che la sua eredità sia infinita, proprio com’era la bontà d’animo che trasmetteva. Toscanaccio verace, ma umile come pochi. Un signore che ha riunito generazioni di tifosi sotto lo stesso cielo, divenuto oggi ancor più leggenda di quanto non raccontassero i numeri di una carriera breve, ma folgorante.
Uno che ha avuto un feeling del tutto speciale con le terre latine, quelle più calienti e trasudanti di passioni. Paolo Rossi diventa infatti Pablito già nell’estate (pardòn, nell’inverno argentino) del 1978, quando irrompe sulla scena grazie all’intuizione del commissario tecnico Enzo Bearzot, un secondo padre per Paolo, un mentore per un’intera generazione di ragazzi che arriveranno a toccare il cielo con un dito. Quell’esperienza al mundial argentino cambia completamente gli orizzonti: Rossi gioca tutte e 7 le gare della nazionale azzurra che un po’ a sorpresa arrivare a sfiorare la finalissima, cedendo di misura all’Olanda in semifinale e sempre di misura al Brasile nella finalina. Segna 3 gol ed è quasi un’investitura, perché con Bettega sulla via del tramonto e Pruzzo che non riesce proprio a entrare nelle grazie di Bearzot è lui il punto di riferimento dell’attacco della nazionale. Ci sarebbe l’appuntamento con gli europei in casa nel 1980, ma la scure del calcio scommesse (dove Rossi risulta coinvolto in un Perugia-Avellino che finisce in parità e dove segna una doppietta, ma dove altri suoi compagni avevano provveduto ad aggiustare il risultato a sua insaputa) gli costano una dolorosa squalifica per due anni. Per tutti sarebbe l’inizio della fine. Per lui è solo un passaggio tra inferno e purgatorio.
Bearzot, non a caso un secondo padre, capisce che in Spagna avrà bisogno del suo Pablito. Le critiche feroci all’indirizzo del commissario tecnico fanno da contorno a una convocazione che fa discutere, perché mentre Pruzzo segna caterve di gol gli allenamenti di Rossi alla Juventus (che nel frattempo l’aveva riportato in bianconero, in attesa della fine della squalifica) sono blandi, come è logico che sia. Paolo è anche un po’ sottopeso, ma questo non scoraggia Bearzot che molti mesi prima del mundial gli dice che lui avrebbe fatto parte della rosa dei 22 convocati. Per Rossi quella fiducia “sulla parola” suona alla stregua di una scarica di adrenalina: il ritorno in campo, a due mesi dal mondiale, avviene in sordina, ma procede nella maniera sperata e viene bagnato persino da un gol contro l’Udinese, utile sulla via che conduce allo scudetto bianconero. In Spagna, come previsto, Rossi è il titolare dell’attacco. Stecca paurosamente le prime tre gare contro Polonia, Perù e Camerun, va un po’ meglio pur senza segnare contro l’Argentina, ma per Bearzot rimane un intoccabile. E mai tanta pazienza fu più premiata nei 6 giorni più lunghi e forse più belli del calcio italiano, quelli nei quali Paolo diventa Pablito (per davvero), firmando una tripletta al lunedì al Brasile, una doppietta al giovedì alla Polonia e un gol, quello che apre la strada al 3-1 finale, nell’ultima sfida con la Germania. In una settimana Rossi si prende il mondo: la Coppa, il titolo di capocannoniere, il Pallone d’Oro (che arriverà a fine anno) e pure la venerazione eterna di un intero popolo. E da quel giorno, senza saperlo, cambierà anche nome: non più Paolo Rossi da Prato, ma semplicemente paolorossi (tutto attaccato). Un nome comune per una persona fuori dal comune.
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